La eterogeneità dell’essere umano è tale che quello che funziona per me non è detto che funzioni per un altro

Il paradosso della medicina è proprio questo! La caratteristica di ogni essere vivente sta nella sua diversità nel bene e nel male, in salute e malattia… ma fino a non molto tempo fa le terapie erano le stesse per tutti, la medicina era a taglia unica e per molti aspetti lo è ancora oggi. 
A rompere il tabu’ che una medesima pillola deve curare una data malattia, sono stati per primi gli oncologi i quali da qualche anno stanno cercando di affiancare alla medicina basata sull’evidenza (primo passo fondamentale e insostituibile!), una medicina basata sulle prove di efficacia, cercando di curare non la malattia bensì l’individuo-paziente. 
Per questo motivo si parla sempre di più di personalizzazione della terapia oncologica, nel senso che il chemioterapico che induce la regressione del tumore di una persona, non sempre esercita lo stesso effetto quando somministrato ad un’altra persona colpita dal medesimo tumore. 
Questo significa che la eterogeneità dell’essere umano è tale che quello che funziona per me non funziona per un altro. Lo stesso concetto sta iniziando a farsi strada in oftalmologia e certamente il lavoro pubblicato da Davaluri nell’ultimo numero degli Archives of Ophthalmology sarà destinato ad aprire una breccia verso la personalizzazione della terapia anche nella nostra specialità. 
Nel lavoro si parla di farmaci anti-VEGF e di come questi potrebbero non essere efficaci in alcuni casi. Sarà capitato a molti di iniziare a curare un paziente affetto da maculopatia essudativa e dover constatare che per quel paziente i farmaci anti-VEGF non hanno avuto il men che minimo effetto. 
D’altra parte è noto dalla evidence-based medicine che non tutti i pazienti trattati con tali farmaci andavano incontro ad una regressione della neovascolarizzazione e in alcuni si verificava addirittura una progressione. 
Questo fondamentalmente perché il VEGF non è il solo responsabile della formazione dei neovasi. Partendo da questo concetto gli autori hanno ipotizzato che nel caso in cui la neovascolarizzazione coroideale fosse una diretta conseguenza dell’aumentata produzione del VEGF, il vitreo avrebbe potuto essere un serbatoio di raccolta dei prodotti di degradazione del VEGF abbondantemente prodotto. 
Per cui la presenza dei prodotti di degradazione del VEGF nel vitreo potrebbe costituire una prova aggiuntiva della utilità di iniziare una terapia anti-VEGF.

Buona lettura,
Massimo Nicolò


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